Ripresa al ralenti: la visione che serve sul lavoro a distanza
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 05 settembre 2021
La pandemia ha cambiato e sta cambiando il mondo del lavoro. Non si sa bene come perché il fenomeno è in corso. I dati disponibili non ci offrono infatti un’interpretazione condivisa e non abbiamo ricerche sistematiche a livello internazionale.
Partiamo però da alcuni fatti: nonostante la ripresa non abbia ancora riportato l’economia al livello precedente alla crisi, abbiamo oggettivi segnali di pesanti difficoltà a trovare lavoratori disposti ad accettare occupazioni prima normalmente appetibili.
Problema che tocca la gran parte dei settori produttivi, ma che assume particolare intensità nell’edilizia, nell’agricoltura, nei trasporti, nella ristorazione, nel campo medico e nell’assistenza sanitaria.
Tutte professioni che in generale implicano una particolare fatica ma, onestamente, il problema è più diffuso e tocca quasi tutti i campi dell’industria e dei servizi.
La difficoltà colpisce la gran parte dei paesi avanzati, a partire dagli Stati Uniti per passare, con particolare intensità, in Gran Bretagna, Francia, Germania, Olanda, Svezia e, naturalmente, Italia.
Ovunque si cerca la spiegazione di questo fenomeno e lo si attribuisce alle difficoltà del ritorno degli emigranti che la pandemia aveva temporaneamente riportato nei propri paesi, a cui si aggiunge l’enorme disponibilità di risorse messe a disposizione dai vari governi per il sollievo della povertà e, naturalmente, per quanto riguarda il nostro paese, al reddito di cittadinanza.
Si discute ovunque sulle modifiche necessarie perché queste misure non solo aiutino a fare fronte all’aumento della povertà, ma siano distribuite in modo equo e costituiscano uno strumento per migliorare la preparazione delle risorse umane.
Un esame che dovremo compiere anche in Italia, partendo dal principio che oggi la lotta alla povertà fa parte della politica di tutti i paesi democratici e che il nuovo comune obiettivo è quello di renderla uno strumento di aumento dell’equità e del perseguimento di una maggiore crescita e produttività, condizioni per disporre delle risorse necessarie al perseguimento di una seria politica sociale. In questo campo non si ottiene alcun risultato con la semplice cancellazione dei sussidi, ma lavorando con pazienza e severità sulle esperienze in atto.
In questo nuovo quadro ha fatto irruzione il lavoro a distanza. Esso interessa direttamente non tutte le professioni, ma le sta rivoluzionando in tutti i loro aspetti.
Prima di tutto sta lanciando il messaggio di una possibile dematerializzazione del lavoro. Ogni occupazione di carattere materiale e che, comunque, esige una presenza fisica, viene infatti ritenuta di rango inferiore.
Tutto questo sta aumentando una diffusa e crescente insoddisfazione nei confronti dell’intero mondo del lavoro, creando non solo ansia e preoccupazione sul futuro, ma rendendo più difficile l’accettazione delle precedenti occupazioni. Le persone che operano isolate modificano infatti in modo progressivo il loro atteggiamento e le loro attese.
Le tensioni vengono inoltre acuite dalla impressionate diversità con cui il lavoro a distanza viene applicato.
Abbiamo casi nei quali il cartellino di entrata e di uscita rimane l’unico metro di misura della vita di un’impresa o di un’organizzazione.
Ne abbiamo altri in cui si sono sciolte le righe e sostanzialmente ciascuno diventa gestore solitario dei contenuti, degli orari e del luogo della sua giornata di lavoro, accanto ad altri nei quali viene rigorosamente misurato il rendimento e il risultato di chi opera a distanza.
Differenze che provocano tensioni e recriminazioni soprattutto in molti settori della Pubblica Amministrazione (ma non solo), nei quali operare a distanza si è tradotto in un “rompete le righe” che sta facendo infuriare utenti e cittadini.
Gli indubbi vantaggi e gli altrettanto indubbi meriti del lavoro a distanza, lo estendono anche verso settori e mansioni che lo rendono fortemente disfunzionale, specialmente nei confronti dei nuovi assunti, ponendo anche un’ipoteca sull’aumento di efficienza e di produttività necessario per rendere stabile e duratura la nostra ripresa.
Stiamo quindi molto attenti perché la presente anarchia e il disorientamento sulle nuove regole con cui si lavora non è certo una causa secondaria delle difficoltà nel reperimento di mano d’opera che sta profondamente danneggiando il nostro sistema produttivo.
A questo punto bisogna anche tenere presente che, nella frammentazione del mercato del lavoro, coloro che hanno maggiori possibilità agiscono con vincoli sempre minori a livello territoriale.
Anche se si tratta di un fenomeno per ora limitato e circoscritto, ci troviamo di fronte a crescenti casi di specialisti per i quali il telelavoro è particolarmente adatto e che, pur continuando ad operare da casa propria, vengono assunti da imprese tedesche, olandesi o di altri paesi con remunerazioni mediamente doppie rispetto a quelle italiane.
Sta quindi nascendo una nuova emigrazione senza emigranti, ma con un pauroso depauperamento del nostro sistema economico.
Capisco di avere messo insieme osservazioni e spunti sui quali non è ancora possibile costruire una politica organica.
Da queste osservazioni emerge però un fatto: una politica è necessaria e non possiamo più continuare a trattare questa trasformazione globale rivolgendo l’attenzione solo ad aspetti particolari, senza quella visione d’insieme necessaria per affrontare problemi così complessi e così diversi fra di loro.
Per ora si sta solo discutendo sulle singole tessere di un mosaico: abbiamo invece l’obbligo di ricomporlo se vogliamo ricomporre anche la nostra società.