L’ex premier presiede dal 2008 il gruppo di lavoro Onu-Unione Africana per le missioni di peacekeeping
“Ma con Tripoli non c’è più spazio per mediazioni”
«Dobbiamo pensare al dopo-Gheddafi e difendere i frutti delle rivolte arabe»
La crisi del Nord Africa è un grosso guaio per noi. Serve un nuovo disegno di difesa dei nostri interessi nell’area
Intervista di Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera del 16 giugno 2011
Washington — «No, non mi pare che sulla Libia ci siano spazi per una mediazione. Chi conosce bene la situazione sostiene che la prima a non volerla è la Nato. La cosa che possiamo fare ora è agire per evitare che questa difficile crisi faccia saltare l’unico organismo multilaterale del continente nero, l’Unione Africana. E poi dobbiamo prepararci al dopo-Gheddafi. Che rischia di essere abbastanza complicato soprattutto per l’Italia, visto che nell’area probabilmente crescerà il peso della Francia, della Gran Bretagna e della Cina».
Romano Prodi, che dal 2008 presiede il gruppo di lavoro Onu-Unione Africana per le missioni di «peacekeeping», analizza l’impatto delle rivoluzioni nordafricane poco prima di aprire, qui a Washington, i lavori della conferenza sul futuro del continente più povero del Pianeta.
Indicato in passato come possibile mediatore, l’ex capo del governo italiano afferma che «quello che serve ora è uno sforzo per salvare i frutti delle rivoluzioni dei mesi scorsi. Le cose non sono messe bene: l’Egitto, Paese-guida dell’area, è alle corde. Crescono disoccupazione e criminalità. Molti imprenditori sono in prigione, altri sono scappati all’estero».
Nell’immediato il problema che preoccupa di più Prodi è la sopravvivenza dell’Unione Africana, il mantenimento della sua operatività. «Alla conferenza di un anno fa discutevamo grandi progetti. Oggi siamo di fronte a un’emergenza: rischiamo il collasso dell’unico organismo multilaterale dell’Africa il cui funzionamento è stato fin qui garantito in misura rilevante dai soldi della Libia».
Quanto? Nessuno lo sa con esattezza, perché l’Unione è una realtà assai poco trasparente. Ufficialmente da Tripoli arriva il 15% delle risorse. In realtà pare pesi almeno per il 3o. Qualcuno parla addirittura del 5o%.
«Non è un problema di aride cifre» spiega Prodi. «L’Unione funziona male, ma è l’unica istituzione che abbiamo, l’unica entità che può favorire uno sviluppo ordinato dell’Africa. Che ha bisogno di una difesa comune, politiche comuni, un mercato integrato. Come puoi fabbricare auto in Ghana senza infrastrutture e una dimensione del mercato che vada oltre i confini di quel Paese?»
Le rivolte nordafricane che in Occidente hanno scaldato i cuori dei democratici, ora cominciano a preoccupare: «Dopo aver sostenuto i movimenti, adesso dobbiamo fare uno sforzo concorde per far ripartire i Paesi della “primavera araba“. La loro crisi è un grosso guaio per l’Italia, primo partner commerciale della Libia, secondo dell’Egitto, della Tunisia e anche della Siria. La nostra politica mediterranea ne esce molto scossa. Serve un nuovo disegno di difesa dei nostri interessi nell’area.
Ma le rivoluzioni hanno anche un effetto destabilizzante sul resto dell’Africa: scompongono il quadro dei finanziamenti e anche quello delle alleanze». Gli Stati Uniti cominciano rendersene conto e infatti la conferenza che si è aperta ieri, organizzata dalla Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli creata dallo stesso Prodi tre anni fa e dalla Sais, la Scuola internazionale della John Hopkins University, è sostenuta dal Dipartimento di Stato Usa. «L’Unione Africana — spiega Prodi — va aiutata con un intervento multilaterale: non bastano le iniziative dei singoli Paesi. Che spesso sono ex potenze coloniali coi loro legittimi interessi. America, Europa e Cina non si sono mai sedute attorno a un tavolo per discutere del futuro dell’ Africa». Alla conferenza, oltre ai leader di Paesi africani, per la prima volta sono presenti, uno a fianco all’altro, esponenti dell’Amministrazione Obama, del governo di Pechino e dell’ Unione europea.