L’Africa è una priorità europea
Articolo di Romano Prodi e Mario Pezzini su Il Sole 24 Ore del 17 dicembre 2014
Come valuta l’Europa la situazione in Africa? Un giorno i titoli in prima pagina alimentano l’ottimismo: si tratta dell’area che registra la maggior crescita, con un ceto medio in espansione; il giorno dopo, le drammatiche notizie degli attacchi terroristici su larga scala e della pandemia fuori controllo fanno emergere un quadro fosco.
Sono i due volti di una realtà in rapida evoluzione, che abbiamo il dovere di comprendere per poter fornire risposte adeguate.
Grazie alla domanda mondiale di materie prime, al suo dinamismo demografico e alle crescenti esigenze dei suoi ceti medi, dall’inizio dello scorso decennio il continente africano ha continuato ad arricchirsi con un tasso medio annuo del 5,1%: il doppio rispetto al decennio precedente e di tre volte superiore alla crescita dei paesi Ocse negli ultimi dieci anni. In particolare i paesi produttori di petrolio: a quarant’anni dall’indipendenza, l’Angola è ora in grado di offrire il suo aiuto all’ex potenza coloniale, il Portogallo, indebolita dalla crisi economica. Ma anche paesi come l’Etiopia, che possiedono meno materie prime. La nuova ricchezza del continente africano è dovuta in gran parte al maremoto provocato dal riaffiorare della Cina in questi ultimi tre decenni, che ha permesso a 83 paesi in via di sviluppo di registrare tassi di crescita pro capite almeno doppi rispetto a quelli dei paesi Ocse.
Tuttavia, anche se non possiamo che accogliere favorevolmente le migliori performance del continente africano, sarebbe errato esserne soddisfatti: l’Africa ha bisogno di una crescita più forte, inclusiva e duratura. La maggior parte delle economie africane infatti, partite da livelli di reddito estremamente bassi, progrediscono con un tasso di crescita di molto inferiore a quello del 10% registrato dalla Cina nell’ultimo trentennio. I tassi di risparmio restano di gran lunga inferiori a quelli dei paesi asiatici al momento del loro decollo economico e molte economie locali dipendono ancora notevolmente dai flussi finanziari esteri. La crescita dell’Africa non genera inoltre un numero sufficiente di posti di lavoro. Alla vigilia della rivoluzione tunisina del gennaio 2011, tutti gli indicatori economici erano positivi e nessun osservatore aveva percepito la frustrazione di un popolo desideroso di libertà e soprattutto dei giovani diplomati senza lavoro, esclusi dalla crescita. In tutto il continente, meno del 10% dei giovani ha un impiego dignitoso, mentre gli altri alimentano il cosiddetto settore informale, oppure lavorano senza retribuzione nell’azienda familiare.
Le istituzioni del continente, prima tra tutte l’Unione africana, hanno avanzato la corretta diagnosi: la crescita attuale non basta, l’Africa ha bisogno di una trasformazione economica e sociale. Questa non nascerà automaticamente dall’attuale congiuntura di crescita economica. Sarà necessario attuare strategie e politiche pubbliche per stimolare la diversificazione economica, rafforzare la competitività e promuovere le attività che creano occupazione e valore sul territorio.
I governi stanno progressivamente implementando queste strategie, all’interno delle quali le ingenti risorse naturali del continente dovranno svolgere un ruolo essenziale. Tuttavia resta ancora molto da fare: l’Africa investe in media tredici volte meno per km2 nell’esplorazione delle risorse minerarie rispetto a Canada, Australia o Cile. Lo sfruttamento di tali risorse e i profitti che esso genera devono poi servire ad avviare la diversificazione del settore industriale e delle esportazioni. Anche in questo ambito le sfide sono enormi, segnatamente a causa delle dimensioni ridotte e della frammentazione dei mercati interni dei numerosi paesi del continente. L’impennata del commercio africano (più che quadruplicato nell’arco di dieci anni) è sicuramente un segno positivo, tuttavia la sua partecipazione agli scambi mondiali dei beni intermedi, un buon indicatore delle capacità di un paese di percepire i benefici del commercio internazionale e delle catene globali del valore, supera appena il 2%. L’Africa continua a essere prevalentemente un fornitore di materie prime, destinate ad essere valorizzate in Asia o nei paesi Ocse.
Infine, la ricchezza economica emergente non contribuisce automaticamente al benessere della popolazione. La creazione di istituzioni stabili ed efficienti, capaci di garantire pace e prosperità, è un processo che richiede tempo. Risulta così evidente che l’offerta di servizi pubblici quali sanità, istruzione, sicurezza, giustizia, ecc. non segue l’andamento della crescita, in Africa come altrove. Ciò è dimostrato dall’incapacità dei paesi colpiti dalla crisi sanitaria di far fronte all’ebola; in particolare la Sierra Leone, che secondo le previsioni di alcune settimane fa avrebbe raggiunto nel 2015 un tasso di crescita a due cifre. Sarebbe un errore imputare queste carenze agli effetti della cattiva governance e delle appropriazioni indebite. Si tratta certo di problemi reali, ma anche quando gli sforzi sono sinceri, i progressi rimangono lenti. Le imposte percepite dagli stati africani, volte a finanziare i servizi di pubblica utilità, molto spesso provengono principalmente dalle royalties versate dalle multinazionali che operano nei settori energetico, minerario e dell’agricoltura commerciale. Per quanto riguarda il regime fiscale delle aziende locali, esso tende troppo spesso a penalizzare le PME regolari, mentre un numero troppo elevato di grosse transazioni “informali” evadono il fisco. Tutti questi elementi non costituiscono una base solida per il contratto sociale tra stato e cittadini. La trasformazione economica deve contribuire alla ricchezza di imprese, lavoratori e consumatori africani per consentire loro di diventare, grazie a una fiscalità equa e ad incisive politiche pubbliche, i primi attori del loro benessere.
L’Europa non può accontentarsi di attendere che questi cambiamenti si verifichino. Deve attingere alle proprie risorse finanziarie, umane e tecnologiche per adattare le sue capacità di cooperazione alla nuova situazione strategica e geopolitica africana. Più che di aiuti finanziari, si tratta di condividere esperienza, tecnologia e conoscenze. L’Europa, dal canto suo, deve impegnarsi sulla via della solidarietà con il progetto di trasformazione del continente: l’Africa è troppo vicina a noi per essere considerata alla stregua di una questione di politica estera.
Romano Prodi, già presidente del Consiglio italiano e della Commissione europea, è stato Inviato Speciale del Segretario Generale dell’Onu per il Sahel e Mario Pezzini è Direttore del Centro per lo Sviluppo dell’Ocse