Prodi: «L’Is? È frutto della guerra»
Intervista di Arturo Celletti a Romano Prodi su Avvenire del 13 gennaio 2015
Dopo l’emozione, l’impegno corale. Della Ue. Del mondo. Romano Prodi ragiona a voce bassa. «Il terrorismo terrorizza tutti, le tragedie di Charlie Hebdo e del mercato kosher hanno fatto capire che bisogna voltare pagina. Servono azioni politiche, serve un confronto largo. Puntando su Paesi come l’Egitto e la Turchia che ultimamente ha alternato però passi avanti e passi indietro. Ma anche aprendo un confronto con leader discussi come quelli di Iran e di Siria. Se non si allacciano rapporti nuovi è difficile che la tensione possa diminuire. Che il terrorismo possa essere fronteggiato con incisività». L’ex presidente della Commissione Ue riflette su questo mondo lacerato dalle tensioni e dai conflitti. E li mette in fila proprio come papa Francesco. Parla di Medio Oriente, di Libia, di Nigeria. Ma anche di Parigi e di terrorismo. Lo fa con parole nette. Provando a scuotere la comunità internazionale. «Non si possono più usare questi Paesi come una palestra per misurare la propria influenza. Non ce lo possiamo più permettere. Ora le grandi potenze devono affrontare insieme l’emergenza». Serve dialogo politico e anche un confronto tra le grandi religioni monoteiste. Per fermare il terrorismo e costruire la pace. Prodi riflette sul recente discorso del presidente egiziano al-Sisi. Un discorso «rivoluzionario» pronunciato davanti agli imam. «Per chiedere una svolta, un nuovo pluralismo religioso, un nuovo patto tra cristiani e musulmani uniti nel costruire insieme il nuovo».
Professore, è questo l’obiettivo?
La lotta al terrorismo si fa con un dialogo accompagnato da una politica di aiuti, con rapporti economici e politici quotidiani. Non si vince con azioni militari. L’opzione bellica non ha avuto e non ha mai senso. Non c’è un caso, un solo caso, dove abbia portato risultati. È stato così in Afghanistan e in Iraq. E sarebbe così in Libia: l’emergenza libica deve essere risolta obbligando tutte le rappresentanze libiche a sedersi a un tavolo allargato. E questa offensiva diplomatica deve essere facilitata dal ruolo di Paesi esterni e favorita dall’Europa e dall’Onu.
Perché l’opzione bellica non funziona?
Perché il vero problema sono le contraddizioni interne che scuotono i singoli Paesi. I contrasti interni. Le lotte interne. Da un solo Iraq di ieri, oggi ne abbiamo tre. In guerra tra di loro. Ecco il risultato di anni di guerra. C’è un Iraq sciita, uno curdo e un Iraq califfato. E invece serviva una pacificazione interna…
L’Is è frutto della guerra?
Sì, l’Is è frutto della guerra. Una guerra che ha aumentato tensioni che già c’erano. Che le ha moltiplicate. E che ha identificato colui che veniva dall’esterno come il nemico totale: il nemico politico, il nemico religioso, il nemico con la N maiuscola. Ecco il frutto della guerra.
E ora anche la Libia rischia di diventare una polveriera?
La Libia è già una polveriera.
Perché questa terribile ondata di immigrazione da Tripoli?
Perché in Libia non c’è uno Stato e non ci si può mettere d’accordo con nessuno. E poi perché l’Europa è disattenta. Gli immigrati vanno fermati quando partono, quando arrivano non possiamo farci più nulla. Quando c’è un dramma politico sulla terraferma si può rispondere, si può alzare un muro, si possono immaginare azioni; ma quando sono in mare che si fa? Un confine di mare non si ferma. Quando sono in acqua si possono solo accogliere.
E allora quale la possibile soluzione?
Insisto: accordi larghi, dialogo. Perché o si trova un accordo o il dramma diventerà ancora più grande. Ancora più drammatico. Parlavo con il presidente del Niger. Mi spiegava che la loro popolazione raddoppierà nei prossimi 19 anni. E mi avvertiva: ‘O si cambia tutto o verranno da voi‘. Quando hanno fame partono, il problema è darsi da fare per immaginare soluzioni al problema fame.
Pare una sfida complicatissima…
Ma non è impossibile. In alcuni Paesi africani si registra un periodo economico non cattivo. Si parte da zero, ma si comincia a vedere qualcosa che fa sperare. In molte realtà non saremo lontani da un 5 per cento di sviluppo ma tutti dobbiamo fare la nostra parte.
Esiste un legame tra immigrazione e terrorismo?
L’immigrazione ha due ragioni. C’è chi fugge per salvare la vita da zone di guerra. Penso all’Eritrea, alla Somalia, alla Siria, all’Iraq. E chi fugge da zone di fame come la Mauritania, il Mali, il Ciad, il Senegal, la Nigeria. Il terrorismo non c’entra. Certo i terroristi si possono infiltrare tra tanti disperati, ma qui tocca ancora all’Europa. Per un’intelligence europea ci vorrà tempo, ma serve subito un lavoro di prevenzione coordinato. Servono scambi di informazioni tra i servizi di sicurezza di Paesi diversi. Servono subito misure.
Qualcuno dice ‘chiudiamo le frontiere’…
E che facciamo? Chiudiamo l’Europa? Siamo in balia del mondo con un’Europa debole, proviamo a immaginare senza Europa dove potremmo andare a finire… Rivedere Schengen sarebbe una assoluta sciocchezza. La Ue non deve chiudersi, deve mostrare generosità. Finora non l’ha fatto. Ha lasciato l’Italia sola e questo non va e non può andare. Noi confiniamo con le aree più tragiche, se arrivano in 200mila li teniamo tutti qui? Anche la politica dell’assorbimento e dei rimpatri deve essere condivisa. È vero, nella Ue non c’è voglia di condividere, ma noi abbiamo il dovere e l’esigenza di insistere.
Torniamo a Parigi. Al mondo scosso. Che sta succedendo?
In queste ore si è fatta largo una nuova consapevolezza. Forte. Contagiosa. C’è un attentato ai principi più profondi. E c’è la necessità di una risposta, urgente e inevitabile, di straordinaria unità. A Parigi era chiaro: siamo tutti minacciati, tutti alla stessa maniera sotto attacco. Una minaccia che ci prende tutti e tocca principi fondamentali come la tolleranza, la libertà di espressione, il rispetto.
C’è Parigi, ma c’è anche il dramma della Nigeria e il terrore figlio dei crimini di Boko Haram.
La Nigeria è il luogo dove si commettono le efferatezze più terribili al mondo. Anche in termini quantitativi. Come nel passato in Ruanda. Efferatezze enormi, tragiche. Una tragedia immane, ma la drammaticità non viene percepita perché è là, perché è in Africa. Come con ebola. Quando si pensava che poteva toccare noi prendeva intere pagine dei giornali, oggi si è tranquilli perché riguarda solo loro… Non va bene, ma la comunità internazionale è ben felice che il problema resti circoscritto all’interno della Nigeria. E la reazione comune è dire ‘se la cavino loro’.
Il Papa parla anche di Italia e ci invita a non cedere alla tentazione dello scontro.
Siamo dilaniati come lo sono altri Paesi.
La nostra Lega è identica al Front national di Marine Le Pen. C’è qualcosa di drammatico nelle loro mosse. Ma anche di tristemente comico: gli antieuropesti fanno i raduni collegiali in Europa per affermare il loro antieuropeismo. Tutte le divisioni fanno il gioco dell’integralismo.