Il terrorismo si può battere solo chiudendo i rubinetti
Articolo di Romno Prodi su Il Messaggero del 12 aprile 2015
Da ormai troppi anni il Mediterraneo, l’Africa e il Medio Oriente sono teatro di tensioni senza fine. L’eterno conflitto afghano, la guerra fra Iran ed Iraq, l’incomprensibile massacro fra Etiopia ed Eritrea, la guerra irachena e, infine, la tragedia libica hanno causato milioni di morti e immani sofferenze umane. A questi eventi bellici si sono aggiunte guerre civili interne e, infine, crescenti episodi di terrorismo, spinti sempre di più da fanatismi di carattere religioso che, negli ultimi tempi, si sono particolarmente indirizzati nei confronti dei cristiani. Essi, privi di ogni speranza, stanno abbandonando il Medio Oriente, comprese le regioni che sono state per secoli la culla del Cristianesimo, come l’Iraq e la Siria.
Negli ultimi anni il terrorismo ha talmente allargato la propria sfera di azione che, da New York a Parigi, dal Kenya alla Tunisia nessuno si sente al sicuro.
Il terrorismo ha iniziato a costruire strutture statuali, con un proprio territorio e proprie istituzioni. In modo compiuto tra la Siria e l’Iraq, con un processo in divenire in Libia, nel Sahel, in Nigeria e nel Sinai.
Di fronte a questa offensiva si allarga ogni giorno il dibattito sulla possibilità di intervento contro un nemico così mobile, così onnipresente e così capace di attrarre nuovi proseliti non solo nei paesi islamici ma anche nella seconda e terza generazione di emigrati in Europa e negli Stati Uniti.
Da più parti sono emerse proposte in favore di un’opzione militare. Un’opzione che non può essere certo scartata a priori ma che, dall’intervento in Iraq alla guerra di Libia, è solo servita a moltiplicare le sofferenze e a rendere sempre più difficili le soluzioni possibili. Il nuovo terrorismo, inoltre, essendo più mobile e diversificato, rende ancora più difficile l’intervento militare. Non sarebbe certo un risultato confortante inviare truppe in Siria col risultato di vedere l’Isis intensificare la propria presenza in Libia o in Nigeria.
Il terrorismo può essere vinto solo seccandone le radici che ora lo nutrono con gli introiti della vendita di petrolio e di materie prime, con il commercio della droga, col traffico degli esseri umani e con risorse provenienti da organizzazioni protette da governi che usano il terrorismo come uno strumento di politica interna. Le offensive portate avanti dai terroristi con armi ultramoderne montate su centinaia di vetture spesso nuove di zecca richiedono infatti mezzi finanziari poderosi.
Bisogna inoltre aggiungere che non solo quella che viene definita l’imbelle opinione pubblica europea ma anche l’assoluta maggioranza degli americani non è più disposta a sacrificare uomini in azioni militari sanguinose e con risultati sempre meno efficaci. Quando si arriva alla decisione finale i governi inviano droni, aerei da bombardamento o, al massimo, istruttori militari, pur sapendo che le guerre non si vincono con gli aeroplani ma solo con gli scarponi. Chi propende per l’opzione bellica deve anche chiedersi se è possibile fare la guerra dappertutto, in cento fronti e in cento contesti diversi.
Dobbiamo quindi rassegnarci ad essere sconfitti dal terrorismo? Penso proprio di no perché mai come oggi si è aperta una finestra politica che permette di soffocarlo.
Ci troviamo infatti di fronte ad una situazione assolutamente senza precedenti, perché tutte la grandi potenze vivono oggi nella paura del terrorismo proprio perché esso è così ramificato da costituire un pericolo per tutti.
La Cina vive nell’incubo degli oltre venti milioni di islamici che risiedono al suo interno. La Russia è in perpetuo allarme per il terrorismo caucasico e l’Europa e gli Stati Uniti si sentono disarmati di fronte a questo nemico senza volto.
Anche se assai complicata da mettere in atto, nulla è più ragionevole e più potenzialmente efficace di un’azione comune delle grandi potenze nei confronti di tutti i paesi con i quali esse hanno legami, affinché questi paesi si impegnino per fare mancare ai terroristi gli introiti che alimentano la loro forza.
È possibile un accordo di questo genere? Da un lato saremmo propensi a rispondere di no perché le tensioni fra Stati Uniti e Russia non fanno altro che accentuarsi, l’Europa non sembra avere la forza sufficiente per agire come arbitro e la Cina lavora per conto suo, affermandosi sempre di più nello scacchiere asiatico e costruendo una sempre più forte presenza finanziaria, economica e militare nel mondo.
Siamo tuttavia di fronte ad un fatto nuovo: la trattativa fra tutte le grandi potenze e l’Iran. Abbiamo ancora qualche settimana di attesa per vedere se la trattativa andrà in porto, ma è certo che quanto i cinque membri del consiglio di sicurezza ( più la Germania) stanno concludendo con l’Iran non riguarda soltanto il problema nucleare ma anche il reinserimento nel gioco politico globale di un paese che è perno degli equilibri medio orientali.
Quest’accordo riguardante uno scacchiere così delicato renderà più facile l’adozione di una politica comune nei confronti del terrorismo da parte di tutte le grandi potenze. Esse potranno quindi premere su Siria, Qatar, Arabia Saudita, Turchia e su tutti i paesi nei confronti dei quali esercitano una forte e non resistibile influenza affinché questi paesi facciano mancare ai terroristi le risorse di cui hanno bisogno per esercitare il loro potere.
Per dare corpo ad un’azione comune non è necessario un accordo globale e generale: basta che le grandi potenze diano ascolto al sentimento di paura dei loro popoli, un sentimento che, nelle grandi democrazie, si esprime nel momento del voto, ma che è altrettanto presente nei paesi gestiti in modo autoritario.
Il terrorismo prospera infatti sfruttando le infinite contraddizioni che le grandi potenze permettono o addirittura coltivano nelle politiche locali dei paesi amici. In queste contraddizioni il terrorismo trova uno spazio crescente, fino a farsi Stato.
L’opzione bellica non sarà mai in grado di sfruttare in modo positivo la paura di tutti. Solo un accordo comune potrà battere il terrorismo.