Prodi: «Con questi leader l’Europa fallisce»
Intervista di Carlo Lania a Romano Prodi su Il Manifesto del 25 aprile 2015
Intervista al manifesto. L’ex presidente della commissione europea Romano Prodi: «Su immigrazione e accoglienza il consiglio europeo non ha detto niente. Mi aspettavo di più, ma sono abituato alle delusioni». «Parlare di affondare i barconi soddisfa solo la demagogia». E su Renzi: «La migliore pubblicità al mio libro l’ha fatta proprio lui»
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Deluso dal consiglio europeo? «Veramente non mi aspettavo niente di più di quel poco che è stato deciso». Affondare i barconi degli scafisti? «Dovrebbero spiegarmi come farlo senza provocare una strage». Aprire campi profughi in Africa? «E perché non al Polo Nord? Farebbero di tutto pur di tenere i migranti lontani dall’Europa».
Non si sottrae a nessuna domanda Romano Prodi. L’ex presidente del consiglio ed ex presidente della commissione europea mantiene sempre uno sguardo molto attento a quanto succede in Europa, e in particolare ai drammi dell’immigrazione. Cosa che non gli impedisce di replicare al presidente del consiglio che ha derubricato a pubblicità editoriale (è in edicola «Missione incompiuta», il libro scritto con Marco Damilano) le opinioni politiche del leader dell’Ulivo. «Veramente la migliore pubblicità me l’ha fatta lui. I librai si sono affrettati a ordinare altre copie del libro», scherza.
Presidente come giudica le conclusioni raggiunte sull’immigrazione dal consiglio europeo?
Il giudizio è misto, nel senso che c’è una parte di raccolto positivo, che è l’aumento della dotazione europea e poi ci fermiamo lì. E’ un giudizio di soddisfazione nel senso che il dialogo va avanti, ma anche di delusione per il fatto che sui punti cardine, cioè sulla politica dell’immigrazione e sulla strategia di accoglimento non c’è proprio niente. Resta simbolica la frase di Cameron: «Prendiamo profughi e li portiamo in Italia».
Si aspettava o sperava qualcosa di più?
Speravo sì, aspettavo no. Purtroppo sono abituato alle delusioni. Era quello che nell’attuale situazione europea si può pensare sarebbe arrivato.
Lei in passato ha parlato spesso di un’Europa «assente» di fronte alle grandi crisi e i risultati del vertice sembrano confermare questo giudizio. Quali sono le ragioni di questa assenza?
Il progressivo prevalere degli interessi nazionali sugli interessi collettivi, un’involuzione totale che si esprime anche nei capitoli dell’economia. Figuriamoci quindi in politica estera e immigrazione che sono il capitolo più delicato. Ho sempre pensato che politica estera e difesa sarebbero state le ultime a essere messe integralmente nell’agenda europea. L’integrazione europea indubbiamente è entrata in un lungo periodo di crisi e settori come esteri, difesa e immigrazione sono i capitoli difficilissimi. Quindi non ritenevo che il vertice avrebbe potuto far compiere dei passi in avanti. Il mio è un sentimento di delusione ma atteso. Purtroppo è la normalità dell’attuale situazione europea.
Sembra quasi voler sancire il fallimento del progetto europeo.
Il fallimento no, una lunga sosta sì. Il progetto europeo non può fallire. Dalla bocciatura della Costituzione in poi i leader europei hanno ascoltato i loro populismi e seguito la loro politica di breve periodo. Così non si farà mai l’Europa.
Verrà però il momento in cui questo metterà a rischio la stessa politica interna dei diversi Paesi, allora si ricorrerà di nuovo all’Europa, costretti da un’emergenza. Ma in questo momento non vedo la spinta.
Che pensa della possibilità di affondare i barconi degli scafisti?
Non c’è nessuno che mi dica come si fa. Con questo sistema si rischia la strage di uomini, ma non mi sembra una soluzione. E infatti la nota vaticana che ho visto in materia lo mette bene in rilievo. Che facciamo, bombardiamo i migranti? I paragoni che vengono fatti con l’Albania o la Somalia sono del tutto fuori luogo perché lì c’era un governo con cui si poteva interagire.
Intendiamoci: se uno potesse distruggere tutti i barconi vuoti messi uno in fila all’altro, io sarei il primo a dire di sì. Ma questa di bombardarli è un’ipotesi che fa tanto piacere alla demagogia e al sentimento popolare prevalente. Perché attenzione: quando io mi giro intorno e parlo vedo che il sentimento populistico è arrivato alle radici del popolo italiano. Se votassimo a maggioranza forse vorrebbero bombardare i barconi, ma ritengo la cosa del tutto irragionevole.
Teme un nuovo intervento in Libia?
Ritengo talmente sciagurata la prima azione in Libia che l’idea di farne una seconda è impensabile.
Crede comunque che si stia andando in quella direzione?
Vediamo prima di tutto cosa significherebbe un intervento in Libia. Prima ipotesi: droni e aeroplani. Si fanno un sacco i morti e non decide niente. Seconda ipotesi: truppe. Significa mobilitare decine di migliaia di uomini o forse centinaia di migliaia di uomini, non mille o duemila. Non è nemmeno pensabile. Poi c’è un altro problema molto serio. L’obiettivo che si vuole colpire in Libia è il terrorismo. Ma il terrorismo non è libico, è ubiquo. Si fa la guerra in Libia e questi si spostano nel Sahel o negli altri punti già maturi per accoglierli, come Siria, Iraq, Mali. Questo è l’unico effetto che si otterrebbe.
Nel libro che ha scritto insieme a Marco Damilano lei dice che l’intervento in Libia nel 2011 fu un errore. Le chiedo: dobbiamo a quell’errore anche l’emergenza immigrazione di questi giorni?
Il fatto che sia incontrollabile sì, il fatto che ci sia no. Quando ero nel Subsahara me lo dicevano tutti: guardate che qui c’è una bomba demografica, dove va la gente, dove scappa? Mi guardavano puntando il dito e mi dicevano: da voi. C’era anche prima l’emergenza, tuttavia alla fine potevamo trattare con la Libia di Gheddafi che minacciava sì di riempire dei barconi e di mandarceli, ma avevamo un interlocutore e alla fine si trovava il modo per farlo smettere. Oggi non c’è più un interlocutore, anzi è acclarato che lo stesso terrorismo internazionale faccia buoni affari con i migranti.
A proposito, il premier Matteo Renzi le rinfaccia i suoi rapporti con Gheddafi.
Guardi, nel libro spiego tutta la storia chiaramente citando i documenti, compresa la lettera di Ban Ki-moon. Il libro non l’ho scritto per polemica ma per ricordare i vent’anni dell’Ulivo. E mi propongo di scriverne un altro tra vent’anni così potrò dare un giudizio anche su questo periodo storico, pensi come sarà bello. Ma veniamo a Gheddafi. Certo, gli interessi italiani erano evidenti. Con lui la linea è sempre stata ferma. Ci sono però due Gheddafi nella storia. Il primo è un feroce dittatore all’interno del Paese. Rimasto tale dall’inizio alla fine.
Poi c’è un secondo Gheddafi, quello della politica estera. In una prima fase un Gheddafi trouble maker, un creatore di disordini. Ha provocato guerre dappertutto, voleva essere potenza militare regionale e ha alimentato il terrorismo: Lockerbie, la discoteca La Belle, tutte questi atti delinquenziali. In una seconda fase ha capito che questo non gli dava frutto. Dopo alcuni anni che lo avevo capito, mi sono preso la responsabilità di invitarlo a Bruxelles sapendo di dare un contributo positivo alla pace. Fu la sua prima visita ufficiale in Europa. Avevo capito che avremmo chiuso un problema per la comunità internazionale. Ho avuto reazioni negative dagli Stati uniti e da Gran Bretagna. Dopo due mesi però erano tutti contenti e per incontrare Gheddafi bisognava fare la coda.
Si era chiuso un problema. Da presidente della commissione divenni poi presidente del consiglio e iniziammo una lunga negoziazione sul Trattato di amicizia che io non volli firmare. Non per tensioni personali o perché avevo cambiato parere, semplicemente perché difendevo gli interessi del mio Paese e non mi era chiaro quello che sarebbe stato il costo da parte italiana. Poi altri hanno firmato. Quindi i miei rapporti con Gheddafi sono stati fermi.
Le spiego un’altra cosa: io ho sempre avuto contatti anche con le tribù, i cui rappresentanti sono venuti in visita ufficiale a Bologna. Proprio perché ho sempre coltivato quel minimo di possibile dialogo con la società civile. E questo mi ha reso una posizione abbastanza aperta nei confronti sia di Gheddafi che delle altre realtà. Tant’è vero che l’anno scorso autorevoli interlocutori libici hanno chiesto, in modo ufficiale al presidente del consiglio italiano, che io diventassi il mediatore in Libia. Non avendo avuto nessuna risposta né loro né io, non so cosa è successo.
Torniamo all’immigrazione, resta il nodo di una più equa distribuzione dei richiedenti asilo, che l’Europa non sembra proprio voler sciogliere.
Questo è un punto che oggi non si riesce neanche a discutere.
La cancelliera Merkel però ha detto che il regolamento di Dublino non funziona più. Si riuscirà a modificarlo?
Mi auguro di sì, la speranza c’è. Se però ragiono in modo razionale quando sento la reazione di Cameron la leggo come la chiusura della porta perfino alla discussione del problema, perché di fronte ai suoi elettori lui dice no alla possibilità di accogliere profughi. Ma si rende conto di cosa ha detto? «Io li porto in Italia», c’è pure lo sfottò. Poi, se la cancelliera Merkel si impunta, col tempo si può anche arrivare a porlo all’ordine del giorno.
Ma perché non si aprono corridoi umanitari?
Perché dall’opinione pubblica vengono ritenuti dei taxi. Ritorniamo sempre al problema dell’elettorato. La questione è enorme e non si risolve senza una massiccia dose di aiuti a un’Africa che si sta svegliando. Questo è l’elemento di speranza, ci vorranno trent’anni, ma l’Africa non è più un corpo immobile come era sei, sette anni fa. Pensi che il flusso delle rimesse degli immigrati in Africa da un anno e mezzo ha superato il flusso degli aiuti dall’esterno. Vuol dire che ci sono risorse autonome, alternative, poi ci sono investimenti stranieri che stanno crescendo.
Insomma il continente comincia a muoversi, se solo noi gli dessimo una spintina… C’è un fatto che la gente non capisce: che l’immigrazione cala non quando un Paese diventa ricco, ma quando nasce la speranza. Cominciamo a innescare questa speranza e il flusso dell’immigrazione calerà da solo, perché si emigra per disperazione.
Cosa pensa del processo di Khartoum e della possibilità di aprire in Africa campi dove accogliere i profughi esaminando lì le richieste di asilo?
Purché i migranti stiano lontani dall’Europa le pensano tutte. Perché allora i campi non li facciamo al Polo Nord? (ride). Ma si rende conto? Da un lato c’è il Sudan, un Paese che tutti definiscono dittatoriale, e ci mettiamo i campi profughi? Basta il buon senso per capire che non va bene.
Per finire parliamo di politica. La nuova legge elettorale mette fine all’idea di centrosinistra?
Posso ripeterle che l’Ulivo è nato per il bipolarismo. Ho sempre sostenuto all’inizio un sistema elettorale di tipo inglese. Data la frammentazione politica italiana e che vi sarebbero stati parlamentari eletti con il 20% dei voti, sono passato al sistema francese a due turni. In ogni caso ci devono essere più partiti, o più coalizioni che si contendono il governo del Paese.
E’ vero, come l’accusa qualcuno, che sta preparando insieme a Enrico Letta un piano per subentrare a Renzi in caso di crisi?
Dovrei risponderle con una risata e invece le rispondo semplicemente no. Tra l’altro in un Paese in cui nessuno legge è bello pensare che si possa attentare al governo scrivendo dei libri.
Renzi infatti ha detto che dovete promuovere i vostri libri.
Onestamente l’unica grande promozione del libro l’ha fatta lui dicendo questa frase (ride). Nel mio caso almeno i librai si sono affrettati a riordinarlo.
Ma esiste o no questo piano tra lei e Letta?
No, non abbiamo nessun piano. Non so se Letta ha voglia di rientrare in politica, ma io con l’età che ho se avessi voluto fare qualche piano l’avrei fatto un po’ prima. Sono sette anni che sono fuori, che giro il mondo, faccio cose interessanti e non ho nessuna intenzione di dare noia a nessuno né di sostenere nessuno. Però ho il diritto di ricordare ed è per questo che ho scritto il libro. E ripeto, tra vent’anni ne scriverò un altro.