Crisi libica: la soluzione nelle mani delle grandi potenze
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 22 aprile 2015
Abbiamo pianto per una tragedia che non ha precedenti nella pur desolante storia dell’emigrazione mediterranea. Adesso dobbiamo fare di tutto perché questa tragedia non si ripeta.
Partiamo tuttavia dal fatto che le condizioni che spingono oggi ad emigrare continueranno per lungo lungo tempo.
Esse sono il frutto della guerra e della fame, due spettri che ci accompagneranno all’infinito se non si interverrà con forza e determinazione. Le guerre infatti ci circondano (dal Medio Oriente al Corno d’Africa) mentre la fame spinge verso di noi coloro che, a sud del Sahara, cercano condizioni di vita più tollerabili. In conseguenza dell’alto tasso di natalità e della diminuzione del tasso di mortalità, le popolazioni di quei paesi raddoppieranno in meno di vent’anni. O troveranno un pezzo di pane in casa loro o lo verranno a cercare da noi: di fronte alla prospettiva della morte non vi è scelta.
L’unico rimedio a questo stato di cose è la speranza di un domani migliore per quei popoli: quanto stiamo facendo per il loro sviluppo non è certo sufficiente e non vedo nemmeno una reale volontà politica di moltiplicare il nostro impegno per il loro futuro.
In attesa di questa speranza di cambiamento bisogna almeno mettere ordine a questo esodo e impedirne le conseguenze più catastrofiche. Il che significa affrontare il problema libico, perché le partenze verso l’Europa avvengono soprattutto dalla Libia, non soltanto per la vicinanza geografica ma perché la Libia è uno stato in dissoluzione, nel quale nessun controllo e nessuna legge è ora applicabile.
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Dimentichiamoci l’intervento militare. Di guai ne ha già fatti a sufficienza la guerra del 2011 e ne farebbe ancor più un intervento militare oggi. Prima di tutto perché nessuno è disposto a mandare truppe di terra in Libia, mentre è ben noto che le guerre non si vincono con gli aeroplani o con i droni ma con gli scarponi. Ogni iniziativa bellica provocherebbe inoltre una inevitabile reazione della maggioranza del popolo libico e non servirebbe nemmeno per sconfiggere il terrorismo. Esso è diventato così mobile che, se anche fosse vinto con le armi in Libia, risorgerebbe rinforzato a sud del Sahara, nel Sinai, nel Corno d’Africa o in Siria.
Quanto all’intervento europeo ne abbiamo già visto i limiti. Una nuova politica sul l’immigrazione non è prevedibile in un vicino futuro e non può essere nemmeno ipotizzata oggi, alla vigilia delle elezioni britanniche.
I compromessi sul tavolo di Bruxelles non sono neppure in grado di raggiungere il livello di efficacia della missione Mare Nostrum, che gravava tutta sulle spalle dell’Italia. L’Unione Europea non si è infatti dimostrata disposta in passato e non è disposta oggi ad elaborare una politica per il Mediterraneo sufficientemente efficace. Si è trovata, anche con un nostro significativo sacrificio, una forte linea d’azione in favore dei paesi che prima erano nell’orbita dell’Unione Sovietica, ma i paesi del nord si sono sempre opposti a investire risorse concrete nei progetti di sviluppo dei paesi della sponda Sud del mediterraneo.
Una politica efficace per ricostruire lo stato libico è oggi possibile solo partendo dalla constatazione che tutte le grandi potenze vivono nella paura del terrorismo con cui sono costrette a confrontarsi: la Cina per gli juguri, la Russia per quello caucasico, e poi l’Europa e gli Stati Uniti per tutto quello che abbiamo vissuto.
Queste “grandi potenze”, se agiscono insieme, hanno una forza assolutamente determinante nei confronti di tutti i paesi che, a loro volta, determinano in modo diretto la politica della Libia. L’Egitto, quasi tutti i paesi del Golfo e l’Arabia Saudita sostengono il governo di Tobruk, mentre la Turchia e il Qatar appoggiano il governo di Tripoli e i miliziani di Misurata.
Gli strumenti che le grandi potenze hanno in mano per richiamare all’ordine i propri alleati sono irresistibili, così come sono irresistibili gli effetti che essi produrrebbero a cascata sulle parti in conflitto, tanto da riuscire a costringerle a trovare un accordo unitario all’interno della Libia.
Da questa catena di comando non solo dipende il flusso degli armamenti ma anche il flusso del denaro che alimenta le diverse parti in conflitto.
Questa è l’unica via per sperare di porre fine alla guerra che, mantenendo l’anarchia nel paese, rende possibile quest’infame commercio di vite umane. Ed è anche l’unico strumento per mantenere l’unità di un paese che, altrimenti, è destinato a separarsi almeno in tre parti o a esaurirsi in lotte tribali che darebbero luogo a guerre criminali senza fine.
Come dimostra la pur difficilissima trattativa sull’Iran, un accordo è sempre possibile se i comuni interessi di lungo periodo delle grandi potenze prevalgono sulle tensioni particolari e se si cerca quel “do ut des” che è condizione di ogni trattativa internazionale.
Le altre strade proposte per risolvere il problema libico non mi sembrano praticabili. Non appare proponibile l’embargo completo per un paese come la Libia che vive degli alimenti che provengono dall’estero, non solo per le sofferenze che provocherebbe alla popolazione ma anche perché esso presume un impossibile accordo con i paesi vicini. Nemmeno riesco ad avere un’idea concreta delle conseguenze di un ipotetico blocco navale, perché nessuno degli esperti che ho consultato mi ha ancora spiegato in che cosa esso consisterebbe e come esso potrebbe funzionare senza produrre tragedie umane ancora più pesanti.
Lavoriamo quindi rapidamente perché l’iniziativa europea raggiunga almeno l’efficienza che aveva l’intervento italiano di “Mare Nostrum” ma operiamo perché le grandi potenze esercitino la loro influenza sui paesi che oggi determinano il futuro della Libia. La ricostruzione delle istituzioni di questo paese conviene a tutti e non solo all’Italia che ne subisce oggi le conseguenze più pesanti.